Installazione dell'opera per voce di Domenico Brancale.
Sound design Alessandro Gulino.
7 croci di un camposanto lucano, i resti di ciò che fu piantato nel nome della nostra morte. 49 pietre del fiume Agri di questo e un altro fiume dove risuona l’acqua da millenni, scorre e ci vede scorrere, dove siamo rimasti, proprio qui nel solco di una voce, che nessun vento sparpaglia, e nessun vuoto riempie. Sempre una voce deposta sulla pietra. Sempre un silenzio piantato dentro questa croce.
La voce è ferma. L’esperienza della poesia di Domenico Brancale sembra sempre vacillare invece di evolversi, si muove per barcollamenti, cadute, strappi e ferite. Ma la voce è ferma. Sempre. Lancinante e ferma. La sua voce non è una voce, ma è una ferita aperta. L’eco di un lamento tanto dignitoso quanto sostanzialmente indecente.
E ora, così cavernosa nel timbro e quindi vuota nella sostanza, risuonante, si confronta ancora di più con la carne dell’essere, l’esperienza della morte. Ma la morte intesa anche come linguaggio e opera. Perché quest’ “opera per voce” altro non è che l’ennesima prova di morte del poeta: come sempre, come è classico. E ora tutto il dettato si eclissa in un buco nero, una croce, simbolo oramai deposto dal suo ruolo di sole, dal suo contesto, l’ossario.
La voce evoca le immagini a sé: simbolo dell’assenza, decanta l’horror vacui, la sfiducia nell’uomo.
Un poeta che manca la sua voce fin dalla nascita chiede l’assoluzione e la condanna.
Catalogo in due fascicoli, uno dedicato al reportage dell’installazione e l’altro sulla poesia di Brancale con scritti di Vito Bonito, Jonny Costantino e Sandro Sproccati, a cura dell’editore CTL-presse di Amburgo con la collaborazione della Galleria Gasparelli Arte Contemporanea di Fano.
Work installation by Domenico Brancale's voice.
Sound design Alessandro Gulino.
7 crossroads of a Lucania's cemetery, the remains of what was planted in our death's name. 49 stones of the Agri river, this one and another one, where water resounds for millenniums, flows and sees us flowing, where we remained, just here in the furrow of a voice, that no wind scatters, and no empty fills. Always a voice placed on the stone. Always a planted silent inside this cross.
The voice is firm. The experience of Domenico Brancale's poetry always seems wavering instead of evolving, it moves by staggering, falling and hurting itself. But the voice is firm. Always. Heartbreaking and firm. His voice is not a voice, but is an open injury. The echo of a so dignified as substantially indecent lament. And now his deep tone resounds empty in the substance, compares itself more with the being's flesh, with the death experience. But also considering the death as language and work. Because this "work by voice" is just an umpteenth death proof of the poet: as always, as it's classic. And now the whole dictate eclipses in a black hole, a cross, a deposed symbol from its role of sun, from its contest, the ossuary.
The voice evokes the images itself: symbol of absence, extols the horror vacui, the mistrust in humans.
A poet missing his voice from the birth begs for the absolution and the condemnation.
Catalogue in two issues, one dedicated to the installation reportage, the other one to the Brancale's poetry with scripts of Vito Bonito, Jonny Costantino and Sandro Sproccati. Curated by CTL - press editor, Hamburg with the collaboration of Gasparelli Contemporary Art Gallery, Fano.