"Lavoro sempre. In ogni momento, con le mani, con il corpo, con il pensiero. Quando dormo, lavoro e quando respiro, lavoro. Quando guardo, quando cammino, quando non capisco. Quando non so niente, anche lì lavoro. Cosa rimane? Forse un'opera, forse niente, ma va bene lo stesso." Francesco Bocchini (Cesena, 1969) è artista scultore che già sedicenne ha voluto confrontarsi con l'atelier, con un luogo fisico dedicato ad affrontare le idee concorrenti ai materiali di scarto di carrozzeria, recuperati per adattarli a nuove forme e animarli con meccanica mobilità. Proprio il dinamismo della scultura è stato forse un pretesto e sicuramente un obiettivo di spinta immaginativa prima che cinetica, letteraria prima che plastica, non a caso ingaggiato a costruire scenografie per il teatro di ricerca e poi chiamato a fare mondi negli spazi delle gallerie d'arte d'Italia, ritagliando piegando e saldando pensieri di ferro sottile. Fino ad oggi tutto il suo lavoro è stato fondato sull'autenticità di una visione singolare, verificabile nel salto qualitativo delle forme, come nella costante salvaguardia di una spontaneità del ruolo consapevolmente agito e lontana dal progettare una carriera che nell'operare quotidiano dell'atelier avrebbe pure fondato ogni sua visibilità, se il dono dell'espressività fosse implementato nella costante devozione e liturgia del creare autorevole. Quindi non potremmo nel suo caso sintetizzare l'opera in un discorso critico senza disanimare l'esperienza magica che il luogo di formazione della stessa rende opportuna e controcorrente rispetto alle attuali delocalizzazioni dell'arte, che sono anche le scolorite virtualità del sistema e degli operatori del settore. Non è un caso che la sua scultura ha sempre assunto le sfumature di un racconto bizzarro, eludendo la spigolosità dei ferri e la logica della discarica, rimontata con l'atteggiamento da inventore, anche nei suoi frutti più popolareschi, avendone chiari i motivi di trasfigurata azione dell'ordinario, di fenomeni magnetici sugli oggetti, svelanti la soglia in cui ogni possibile immagine riposa o muove.