Verter Turroni ha realmente fatta sua -ma forse semplicemente e più correttamente gli appartiene- la lezione di Marcel Duchamp, ancora oggi spesso banalizzata a più di un secolo di distanza. In merito a questo urge la necessità di una premessa su uno degli artisti che hanno contribuito a dare un nuovo volto all'arte del XX secolo perché, come sosteneva Delacroix a proposito della genialità, bisogna essere posseduti dall'idea che ciò che è stato detto non basta ancora.
L'inventore del ready-made non ci lascia in eredità soltanto la semplice idea che un'immagine può essere evocata per mezzo di un oggetto creato da altri e per altri scopi, senza dover ricorrere ai mezzi tradizionali dell'espressione artistica. A questo sarebbe bastata e in effetti basta la fotografia, del resto in seguito legittimata come medium per l'espressione artistica. Quando Duchamp introduce il concetto del ready-made non vuole neanche dichiarare la pittura superata o in crisi, la quale va pure benissimo, infatti Picasso dipinge senza problemi. Il genio artistico del XX secolo non ha neanche particolari frustrazioni dovendo escogitare una nuova modalità della rappresentazione per far fronte ad una propria crisi creativa in quanto, come tutti sanno, era un tranquillo bibliotecario con la vera passione per il gioco degli scacchi che al mondo dell'arte non ebbe a chiedere nulla.
L'opera di Duchamp ci dice che ogni umano processo di rappresentazione simbolica è il vero contenuto che il solo senso della vista non può cogliere, che dietro l'apparenza delle cose esiste l'unico disegno attraverso cui queste prendono forma e che qui non stiamo più parlando semplicemente di immagini ma della scaturigine dell'immaginario. Per compiere questa impresa straordinaria che potremmo definire di natura occulta o esoterica Marcel Duchamp, pur sapendo ben dipingere, non può avvalersi di mezzi tecnici tradizionali come la pittura o la scultura, i quali per la loro natura tendenzialmente si rivolgono, compiacendolo, al senso della vista il quale, forte su tutto, non conduce che all'ammirazione per il virtuosismo artigianale che ogni pittore o scultore possiede senza per questo essere un artista. Duchamp spoglia l'opera della sua apparenza rivelando a chi sa vedere la vera immagine. A chi non sa vedere rimane la provocazione di una ruota di bicicletta infilata in uno sgabello.
Il solo aspetto provocatorio, irriverente ma direi sopratutto tecnico dell'opera di Marcel Duchamp è proprio quella banalizzazione per mezzo della quale molta arte contemporanea si è persa e continua a perdersi essendosi appropriata soltanto della pelle del lavoro. E qui entra in gioco quello di Verter Turroni dove l'aspetto provocatorio è completamente assente a sostegno di quello lirico. Ma come è assente la provocazione lo è altresì la volontà di codificare un linguaggio simbolico esoterico, portandosi oltre la lezione Duchampiana, per accedere ad un ulteriore grado di purezza della rappresentazione. Oltre il racconto, oltre l'immagine e il simbolo, Verter Turroni mette sul palcoscenico la propria capacità immaginifica. E anche in questo caso lo fa con il solo medium possibile per la questione, l'assemblaggio di elementi il cui luogo deputato potrebbe benissimo essere quello di una vecchia discarica, sui quali il nostro sguardo potrebbe benissimo correre oltre senza soffermarsi, donando poi al risultato un'idea di perfezione che i singoli elementi decontestualizzati dall'opera che vanno a formare, in assenza della scaturigine immaginativa dell'artista, non potrebbero avere.
Non dimentichiamo che mentre l'arte moderna creava un mondo la quasi totalità di quella contemporanea, come già successo in altri periodi poco felici della storia dell'arte, si è diretta invece verso la propria degenerazione ricalcandosi sulla falsariga di quello esistente. Artisti come Verter Turroni questo non lo fanno più, perché l'arte, in fin dei conti, ha una parentela molto stretta con la gnosi.
Mirco Tarsi